Le mie persone preferite sono quelle che mi fanno sentire stupida
Sul valore di una buona conversazione
Non mi ero ben resa conto del valore che do a una buona conversazione fin quando non ho rivisto The holiday durante le vacanze di Natale. Difficile non farsi distrarre dalla presenza scenica di Jude Law, tuttavia, con un po’ di concentrazione, sono riuscita a captare una frase chiave pronunciata da Kate Winslet:
“The workout's not that great but the conversation is fantastic”.
L’accento posto sulla conversazione ha catturato la mia attenzione, perché in The holiday è sempre fantastica: la scrittura è brillante, spiritosa, leggera ma intelligente, in un perfetto equilibrio tra scene iconiche — Cameron Diaz che canta i The killers ubriaca o Kate Kinslet che, dopo una delusione d’amore, avvicina per un attimo il naso al fornello del gas acceso — e altre tenere ma mai stucchevoli.
Il film di Nancy Meyers è solo l’ultimo che si aggiunge alla lista dei miei prodotti televisivi preferiti — tutti accomunati da persone logorroiche, egocentriche, spesso instabili, ma conversatrici provette: i film di Woody Allen, gli show di Fran Lebowitz, Gilmore Girls, Sex and the City, Fleabag, per fare alcuni esempi.
Jane Austen, somma genitrice della conversazione witty, in Persuasione diceva:
“My idea of good company, Mr Elliot, is the company of clever, well—informed people, who have a great deal of conversation; that is what I call good company”.
Credo che il tentativo di rendere la mia vita una brillante sceneggiatura mi accompagni da anni. Così, dato che è difficile instaurare un dialogo da soli a meno di non sentire delle voci nella testa, ho sempre ricercato compagnie dotate di senso dell’umorismo, ironia e la rara capacità di bilanciare profondità e leggerezza. Trovandole spesso nei libri.
Anche Virginia Woolf amava circondarsi di menti brillanti: nei suoi diari, dove descrive “serate interessanti, molto vittoriane, ben fornite di alcolici, sigari, tappeti e poltrone di cuoio” riporta parola per parola le conversazioni del Bloomsbury Group, il circolo di artisti e letterati che ha influenzato il panorama culturale inglese della prima metà del Novecento. La vita intellettualmente stimolante che conduceva, tra ricevimenti, mostre e il lavoro alla Hogart Press, era fondamentale per la sua igiene mentale. In The hours, il film tratto dell’omonimo romanzo premio Pulizer di Michael Cunningham, Virginia è molto esplicita:
I choose not the suffocating anesthetic of the suburbs, but the violent jolt of the capital. That is my choice. […] I wish for your sake, Leonard, that I could be happy in this quietness. But if it is a choice between Richmond and death, I choose death.
The hours — un’altra pellicola scritta magnificamente — riprende un momento preciso della vita di Virginia Woolf descritto nei suoi diari. È il 1923, Virginia vive a Richmond lontana dalla caotica Londra, e si rende conto che la cittadina dove è stata relegata per via della sua fragile salute mentale la sta soffocando. Oltre a rimpiangere la vitalità londinese (“potrei andare a sentire un brano musicale, dare un’occhiata a un quadro, scoprire qualcosa al British Museum o avventurarmi tra gli esseri umani. Qualche volta passeggerei semplicemente per Cheapside”), Virginia lamenta la lontananza dalla sua cerchia di amici:
In me il lato sociale è molto sincero. Né lo considero riprovevole. È un gioiello ereditato da mia madre — una gioia nella risata, un nonsoché stimolato, in maniera non del tutto egoistica o vanitosa, dal contatto con i miei amici. È allora che mi vengono le idee. E poi adesso, per il mio lavoro, voglio rapporti più liberi, rapporti più ampi — e adesso, a 41 anni, dopo aver lavorato un po’, vengo ripagata in parte con gli inviti. Potrei conoscere gente. A Richmond è impossibile.
Virginia traeva dalle conversazioni il materiale per riempire un’esistenza a cui faticava a dare un senso, e da Londra l’energia necessaria per mettere in moto il flusso di pensieri da riversare nella scrittura. Sento la stessa vicinanza con Milano quando ho bisogno di riconnettermi con la vita, perché è nel rumore, nelle strade brulicanti, nelle luci elettriche dei lampioni che scorgo la sostanza di cui è fatta. La tranquillità silenziosa e rassicurante della provincia mi spaventa: la trovo più simile a una tomba che a una oasi di pace. Con lo stesso spirito, vado a caccia di parole che aprano un varco nella nebbia dei miei pensieri: quelle parlate, scambiate con chi ha ritmo narrativo, sono le più preziose perché interrompono il filo della solitudine — l’incessante brulichio nella testa — e aprono nuove possibilità al reale modificandone la sceneggiatura.
Se l’arte imita la vita, la conversazione per me imita la scrittura, e così, in un luccicante locale del quartiere Isola, mentre parlo con un’amica davanti a uno Spritz, posso pensare di comporre interi romanzi, o di dare vita a decine di film. Magari con protagonista Jude Law.
Il video della settimana
A proposito di Virginia Woolf, sabato ho pubblicato un reading vlog che mi sta dando tante soddisfazioni. È dedicato proprio ai diari di Virginia Woolf citati in questa newsletter, lo trovate QUI . Fatemi sapere cosa ne pensate!
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Penso tu abbia dato vita alla risposta che vorrei dare ogni volta che mi chiedono "ma perché ti piace Milano?".