The sad girls department


Ho l’abitudine di aggrottare la fronte quando sono contrariata e il mese scorso ho notato una piccola ruga proprio sopra il sopracciglio sinistro. La mia esperienza da trentenne è abbastanza recente da renderlo un evento inedito: una parte di me maledice di aver trascurato la skincare, l’altra accoglie i segni dell’imminente vecchiaia come una liberazione. Il cervello di solito pacifica le fazioni mandando in loop qualche canzone di Taylor Swift, una donna ormai adulta che, come la sottoscritta, non si libererà mai dei traumi postadolescenziali. Certo, a differenza sua non so trasformare le delusioni in canzoni di successo — a malapena riesco a scrivere una newsletter — ma la mia propensione al drama non ha nulla da invidiare a quella di una donna che scrive: “Fucking it if I can’t have him, I might just die it would make no difference”.
A marzo ho letto Sad girl. La ragazza come teoria, edito da 66thand2nd. La riflessione di Sara Marzullo sull’adolescenza delle millennial ha aperto una finestra sul passato che pensavo chiusa per sempre: l’immersione nella preistorica Internet culture mi ha riportato indietro ai blog, e in particolare a quello che tenevo su MySpace. In questo spazio dallo stile dark, con gli Evanescence a fare da colonna sonora, sfogavo i miei malesseri e ponevo interrogativi con toni tragici non troppo diversi da quelli che adotterei ora.
Nel 2008, le ragazze erano immerse nella cultura emo: la matita sugli occhi era una religione e la voglia di vivere rasentava quella di Bella Swan. Alcune fingevano di tagliarsi, altre consultavano i forum Pro Ana — e non per mera curiosità. La malinconia era rafforzata dai film che vedevamo: Moulin Rouge, Picnic ad Hanging Rock, Le vergini suicide. Ragazze che morivano, scomparivano, si uccidevano. Difficile capire se fosse solo una moda o l’espressione di un disagio interiore, ma mentre questo tipo di immaginario forgiava la nostra adolescenza ci convincevamo di essere soggetti fragili e vulnerabili.
Tra i pochi privilegi della vita adulta c’è la facoltà di spendere metà dello stipendio in libri, quindi a febbraio ho comprato Sofia Coppola Archive: 1999–2023. Le 488 pagine a colori valgono i 65 euro del prezzo di copertina, soprattutto perché riassumono l’estetica di una regista che ha segnato i primi anni Duemila.
Nella pagina che introduce Le vergini suicide, Coppola dice: “Over the making of this film I had my first attempt of bringing my idea of girlhood to life”. La visione di Coppola ha piantato i semi del racconto di formazione femminile sbocciato molto più tardi con Barbie di Greta Gerwig: nonostante le due pellicole siano cronologicamente distanti, la seconda non esisterebbe senza la prima. A Coppola va il merito di aver anticipato la rappresentazione della girlhood sullo schermo, ma non è detto che il suo contribuito all’educazione emotiva delle millennial sia stato positivo: se la narrazione delle ragazze tristi strizzava l’occhio a un’adolescenza sensuale, misteriosa, innocente e allo stesso tempo maliziosa, nella vita interiore delle suddette prevalevano solitudine, senso di inadeguatezza, insofferenza — nulla che dovesse essere romanticizzato o considerato aesthetic. In qualche modo, ci facevamo andare bene qualsiasi tipo di rappresentazione tentasse di rispondere alla domanda: chi sono?
La ricerca dell’identità è una priorità teen ma, per una generazione che ha ritardato l’ingresso nella vita adulta a un’età in cui i genitori avevano già due figli alle elementari, la ridefinizione dei confini personali e dei riti di passaggio ha cambiato la consapevolezza di sé: l’ultimo momento in cui i trentenni ricordano di essere stati qualcuno risale a un passato remoto e, una volta appurata la propria dimenticabilità, hanno cristallizzato in uno spazio nostalgico i miti dell’adolescenza, trasformandoli in un tratto della personalità da esibire.
Entrambi i sessi sono rimasti nel limbo dell’incertezza — in balia di un’adultità indefinita e rassegnata— ma se il maschile non ha mai sentito l’esigenza di interrogarsi su se stesso, il femminile ha col tempo concepito un’idea di pluralità che scardina la narrazione univoca della girlhood — soprattutto ora che è finalmente al centro della riflessione pubblica.
La Gen Z ha elaborato questa molteplicità con una serie di trend su TikTok: la clean girl, la that girl, la vanilla girl. Dopo aver demolito la girlboss di stampo millennial, le trad wives amate dalle giovanissime (casalinghe che trascorrono la giornata a cucinare e badare ai figli, in attesa che il marito rientri dal lavoro) offrono una nuova chiave di interpretazione del femminile. Su Internet, le ragazze si raccontano in prima persona, senza attendere che film, libri o canzoni parlino al posto loro. Nonostante ciò, l’autenticità rimane un’illusione: viviamo in una società dove anche il femminismo è stato capitalizzato e il nostro modo di proiettarci nel mondo è condizionato dall’immagine che vogliamo trasmettere sui social. Girlboss e trad wives, schiave di un modello performativo, sono due facce della stessa medaglia. Al centro, una chimerica libertà di scelta, che ci condanna a riempire una casella a caso del tabellone della rappresentazione femminile.
Sfido un uomo ad alzarsi la mattina e a chiedersi quale versione di sé vuole indossare: al massimo, condividerà su X o Threads o TikTok — o qualsiasi altro spazio virtuale dia l’impressione che la sua opinione interessi a qualcuno — qual è la versione femminile che lui preferisce.
La frammentazione schizofrenica dell’universo femminile è rassicurante proprio per il tentativo di testimoniarne la complessità. Superando i trend e guardando ai prodotti culturali, The Tortured Poets Department, per citare di nuovo Taylor Swift, è un magnifico esempio delle contraddizioni di una trentaquattrenne che inscena la female rage (tanto da avere registrato un trademark: “Female Rage: The Musical”) e lotta contro la sindrome di Peter Pan. Ritratto perfetto di una millennial che ha attraversato diverse ere della sua esperienza di donna, Taylor non riesce a rimanere confinata dentro una di queste, e non soltanto per motivi di marketing.
Artiste molto seguite dalla generazione Z stanno raccogliendo l’eredità delle popstar che erano teenager vent’anni fa: l’ultimo album di Charli XCX, Brat, racconta cosa voglia dire essere una giovane donna oggi, e direi che l’ultima hit cantata con Lorde, Girl, so confusing, rende perfettamente l’idea.
Mentre leggevo il libro di Marzullo, mi sono chiesta attorno a quali personaggi femminili si sia costruita la mia identità. Sailor Moon, Lady Oscar, Pippi Calzelunghe, Barbie, Jo, Meg, Beth e Amy March, Mulan, Britney Spears, Buffy L’ammazzavampiri, Elizabeth Bennet, Spencer Hastings, Avril Lavigne, Lorelay e Rory Gilmore, Anita Blake, Serena Van Der Woodsen e Blair Waldorf, Mia Thermopolis, Lizzie McGuire, le W.I.T.C.H., Elizabeth Swann sono state gli appigli a cui aggrapparmi. Come ogni bambina che percepisce la gabbia sottile dentro cui sta crescendo, avrei preferito nascere maschio. Queste donne, vere o finzionali, mi consentivano di essere tante cose insieme, in un modo che non capivo fino in fondo. Lo avrei colto molto più in là, quando il ventaglio di persone che sarei voluta diventare si è allargato collocando, ai poli opposti, Joan Didion e Samantha Jones.
Cosa ho fatto questo mese
Cinema: ho visto Kinds of Kindness e Inside Out, e credo di aver preferito il primo al secondo. Ovvio, sono due cose completamente diverse, ma lo schema ripetitivo non ha giovato all’ultimo film Pixar. La mia è un’unpopular opinion anche rispetto alla pellicola di Lanthimos, che sembra essere piaciuta solo a me: mescola elementi weird a un’estetica pulita — per certi versi asettica — che non ha soddisfatto né i vecchi ammiratori né i neofiti del regista greco.
Musica: attendo con segreto fervore il nuovo album di Sabrina Carpeter, dopo le bombe lanciate con Espresso e Please, Please, Please (amati entrambi i video). Ma ne parleremo nella prossima newsletter.
Serie TV: finalmente Bridgerton ha saziato la nostra sete di gossip e spicy ottocentesco. Una stagione tristina da diversi punti di vista — non ultimo, le espressioni da allocco di Colin — ma che si salva con un magnifico finale. Anche di questo, parleremo nella prossima newsletter.
Viaggi: sono stata in Veneto i primi giorni di maggio, ho mangiato cicchetti e bevuto Spritz a non finire. Ho acquistato un bellissimo timbro con la mia iniziale e un pennino antico, ho visto due mostre su Monet e ho preso un sacco di pioggia.
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Prima lettrice, poi blogger e ora anche redattrice: cerco di sfuggire alla banalità (dell’esistenza), mi appassiono a un sacco di cose e nel frattempo inseguo un ideale irraggiungibile di letteratura. Credo che tutti dovrebbero fare uno sforzo per essere persone migliori. Io ci provo così.
