Ho sempre saputo chi fossi fino a quando non ho dovuto iniziare a vivere.
Non che quella prima non fosse stata vita. Adesso, però, ho l’impressione si trattasse solo una parentesi propedeutica. In quel periodo, comunque, sapevo chi ero: lo sapevo perché avevo letto decine di libri, studiato per ore, posto degli obiettivi. Ho impiegato poco a perdere la bussola.
È gennaio, sono le 9 del mattino, ho ventitré anni. Mi trovo nell’ufficio dove sto svolgendo uno stage a 200 euro al mese. Ho attraversato Milano in metro — quaranta minuti di viaggio — e poi ho preso un autobus. Sento freddo perché fuori ci sono -4 °C e il mio abbigliamento non è adeguato.
Mi siedo alla scrivania e, per la prima volta, ho bisogno di ricordarmi chi sono. Prendo un quaderno, scrivo quello che sto sentendo: il calore del tè, la morbidezza della poltrona in pelle su cui sono seduta, il chiacchiericcio di sottofondo.
Nel 2017 non conoscevo la mindfullness, e anche se adesso so di cosa si tratta non l’ho mai praticata. Ma avevo fatto una cosa che ci andava vicino: annotare cosa i miei sensi stavano percependo. Nel momento in cui mi sentivo disconnessa, fuori da me — in modo quasi dissociativo — è stato scrivere che ha rimesso insieme i miei pezzetti sfranti.
In un’intervista a Joan Didion del 2011, riportata in Ultime interviste (Il Saggiatore, 2024), Hari Kunzru le domanda: “È la scrittura che le sta dando un centro?”. Didion, che ha appena pubblicato L’anno del pensiero magico, il memoir sulla scomparsa prematura e improvvisa del marito, risponde:
Non ho un centro. Non so dove sia il mio centro. Non so dove lo troverò. A volte mi sveglio nel cuore della notte e penso, be’, avrò un barlume di come appaia un centro, ma non si mostra: è un miraggio.
Il concetto di “centro” in Joan Didion appare la prima volta in un brano di Verso Betlemme, che a sua volta cita Yeats: “Le cose cadono a pezzi; il centro non può reggere”.
Mi sono sentita varie volte come se il centro non reggesse, dal 2016 in avanti. In questa sensazione di squilibrio, dove i bracci della bilancia pendevano da una parte o dall’altra, ho imparato a trovare in me stessa il punto fermo. Non sempre, ovvio. Non sono così emotivamente matura. Ma ci sono stati attimi di consapevolezza, davanti a dei libri, perlopiù, in cui ricordare chi ero voleva dire arretrare, sottrarsi per poi raccogliersi intorno a un nucleo. E spesso scrivere mi ha aiutato a farlo.
Pensavo che sarei rimasta immutabile? Nei miei sogni da ventenne, nulla avrebbe scalfito la mia personalità. L’esigenza di tornare in me, invece, testimoniava come quello che credevo un dato fisso si fosse sgretolato senza che me ne accorgessi.
Contrariamente a quello che si dice, rompermi non aveva significato ricompormi in qualcosa di nuovo e più bello. La retorica per cui le avversità della vita servono a temprarti, a renderti una persona migliore, non mi è mai appartenuta: abitavo molto più serenamente la convinzione che ci fosse un posto nel mondo, per me, fin quando le circostanze non mi hanno costretto a creare liste che cercavano di rispondere alla domanda: “Cosa mi fa stare bene, in questo momento? Cosa c’è nel mio microcosmo?”.
“Equilibrio” è la risposta che ricorre in pagine e pagine scritte negli ultimi dieci anni — e persino in post su Instagram, molto prima che leggessi Joan Didion. I libri danno voce a quello che sai già, perciò capita di cercare se stessi tra le righe di un estraneo. Anche qui, come per le conversazioni che sono state argomento delle scorse newsletter, si tratta di raccogliere parole sparse in giro, assorbirle in quel core, il nucleo, e dargli una nuova forma.
Cores è, strano a dirlo, il titolo di una storia che ho scritto alle scuole superiori. Un’altra parola che sedimenta da allora, rubata, pure lei, dall’incipit di Bring me to Life degli Evanescence, e che parla di essere visti nelle profondità di noi stessi. Gli occhi che guardano, in questo caso, sono proprio i miei.
Il video della settimana
Nel video uscito sabato (lo trovate QUI) ho parlato dei libri più belli che ho letto negli ultimi dieci anni, quelli che mi hanno accompagnato nell’età adulta, tra i miei venti e trent’anni.
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Le mie persone preferite sono quelle che mi fanno sentire stupida
ATTENZIONE: il link al video non funziona, eccovi quello corretto https://youtu.be/w428UPg3yBo?si=55CHWhWIpwpeABS5 scusate!