Succede a tutti i bambini di non voler crescere. A volte, anche agli adulti — ed ecco perché siamo circondati da uomini e donne con la sindrome di Peter Pan, SUV inquinanti acquistati per compensare l’insicurezza della mezza età, trentenni che frignano perché l’adolescente di turno li ha chiamati “signor*”.
A me è capitato alle medie, durante il periodo in cui tutto cambia e le compagne di scuola non vedono l’ora di indossare un reggiseno imbottito. Io no, io avvertivo un triste presagio sull’adultità: sapevo che sarebbe stata difficile, faticosa e che avrebbe fatto discretamente schifo.
Come darmi torto. Da brava Toro, odiavo i cambiamenti — li odio tuttora —, figuriamoci quelli esistenziali, quando devi dire addio al tuo vecchio “sé” e abbracciare il nuovo. No, grazie, sto bene così. L’infanzia mi sembrava molto più rassicurante.
In uno degli ultimi video pubblicati su YouTube, ho parlato dei libri che mi hanno accompagnato dai vent’anni in poi. Questa è l’acqua, il discorso tenuto da David Foster Wallace nel 2005 ai laureandi del Kenyon College, è stato un treno che mi ha investito in pieno petto, e che confermava l’idea che l’affitto da pagare, la monotonia quotidiana, il pensiero di fare la spesa e preparare la cena — insomma, quello che voleva dire essere adulti responsabilizzati costretti a stare al mondo — non fossero cose così divertenti.
In realtà, Wallace non si riferisce alle semplici incombenze domestiche, e nemmeno io. Il fatto denunciato, nudo e crudo, è “toccare i trenta, magari i cinquanta, senza il desiderio di spararsi un colpo in testa”. Parla di essere vittime di modalità predefinite (il “funzionamento”, direbbe la psicologia) che non ti danno possibilità di scelta, se non quella di chiuderti dentro la solitudine della tua testa. “Il fatto è che voi laureandi non avete ancora ben chiaro cosa significhi «giorno dopo giorno»”, dice. L’argomento, insomma, è la fatica di affrontare giornate che assomigliano a gusci vuoti, senza nulla con cui valga la pena riempirli.
Una cosa divertente che non farò mai più parla della stessa cosa. Mentre leggi il reportage sulla Nadir e assisti ai riti della vacanza da crociera, la avverti: la sensazione di morte e inutilità. Le “oltre dieci tonnellate di carne umana bollente” descritte da Wallace mangiano otto o nove volte al giorno, oziano, tentano di distrarsi dalla propria mediocrità, dal pensiero della fine, dal dubbio che l’esistenza che stanno vivendo non gli appartenga e si sia annacquata nei rimpianti e nel ricordo di desideri irrealizzati — in un modo o nell'altro, sembriamo condannati all’infelicità.
David Foster Wallace era depresso — scriverà infatti La persona depressa, uno dei racconti più belli che siano mai stati pubblicati — e conosceva il prezzo di una vita buttata in posti che ti fanno chiedere: “Perché mi trovo qui?”. Pure, sapeva che l’unica differenza sta nella scelta di distogliere l’attenzione da noi stessi per volgere lo sguardo verso l’altro: una forma di generosità che Wallace spiegava come la capacità di “sacrificarsi costantemente in una miriade di piccoli modi” — laddove il “sacrificio” era la pura e semplice decisione di vedere le difficoltà altrui mettendo da parte l’ego, anche se tutto dentro di te vorrebbe urlare “io”.
Quando c’è stato il lockdown, molte persone hanno dichiarato di aver compreso solo allora il valore della libertà e di una routine che non ti facesse sembrare un criceto impazzito sulla ruota. Nel mio caso, non era un’epifania: pensavo fosse importante scivolare sulla terra con consapevolezza, possibilmente con leggerezza — come avrai notato, non mi riesce troppo bene — ma anche con un’intenzione specifica.
La vita sprecata mi è sempre sembrata il peccato peggiore. A rileggermi oggi, sfiancata dall’adultità, userei un po’ di clemenza: il mio continuo tentativo di giustificare l’ossigeno che consumo deve arrendersi all’evidenza che nulla ha significato, e che anzi lo sforzo di darglielo a tutti i costi potrebbe pure essere controproducente. Nella fiction siamo sempre concentrati a cercare messaggi reconditi, e forse lo facciamo per mettere ordine a un disegno interiore che non ne ha. Allo stesso modo, anche io mi vedevo come un prodotto che deve avere senso e legittimare il proprio stare al mondo. Non farlo è stata una conquista che ho ottenuto con fatica, e che non è ancora del tutto consolidata.
Spesso è vero che ci aggiriamo così, come fantasmi che hanno bisogno di una lanterna per non perdersi in un mondo disabitato. Non è la ricerca del senso quella luce che aspettiamo illumini il cammino: piuttosto, il raggiungimento del punto di equilibrio su cui galleggiare. Il centro, come lo chiamava Joan Didion.
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Questa settimana ho fatto un recap delle letture del mese, quelle che ho già fatto e quelle che farò a febbraio. Trovate il video QUI.
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