
Per un lungo periodo della mia vita ho litigato con sconosciuti su Facebook. Non ricordo quando ho smesso, credo intorno ai ventidue o ventitré anni, perché mi ero resa conto che un commento sbagliato comprometteva il corso della mia giornata: mi infuriavo per l’ignoranza, la saccenteria, il maschilismo, la misoginia, l’omofobia, la stupidità, le opinioni fasciste e chissà per cos’altro. Peggio, mi indignavo. Da una parte, percepivo quelle parole come una minaccia — alla mia esistenza, in quanto donna e femminista —, dall’altra, la rabbia è semplicemente l’emozione primaria con cui reagisco ed elaboro quello che mi succede.
Nel controverso Bianco, uscito nel 2019 per Einaudi, Bret Easton Ellis definisce i millennial una generazione di “inetti e mammolette”. Sfoderando l’arma del vittimismo manco fosse una sfera poké, i millennial ripudiano qualsiasi opinione vagamente divergente: cercare di allineare il mondo esterno alla propria sensibilità li ha portati a dipendere dai giudizi positivi.
Tuttavia quando i millennial venivano criticati […], sembravano mettersi così sulla difensiva da crollare in una spirale di depressione […]. Il che ti costringeva una volta di più a prendere in considerazione le persone che li avevano cresciuti, coccolandoli e riempiendoli di lodi, cercando di proteggerli dalle brutture della vita, cosa che poteva benissimo aver creato […] adulti che al primo accenno di oscurità o negatività spesso si paralizzavano diventando incapaci di reagire se non con incredulità e lacrime — Mi hai appena aggredito! — per ritirarsi, in pratica, nella propria bolla infantile.
Pur essendo a tratti irritante — Ellis rimane comunque un maschio cis di mezza età, privilegiato, benestante e, sì, bianco —, il libro scoperchia il vaso di Pandora e denuncia quello che la mia generazione non ha mai ammesso né confessato: eternamente bambini, i millennial non si prendono la responsabilità delle proprie emozioni, preferendo additare le colpe altrui. Qualcuno ne ha parlato in termini di suscettibilità, e lo condividerei se non lasciasse il fianco scoperto a una retorica stantia che non mi appartiene. Ellis lo spiega invece con intelligenza, intuendo l’origine del problema: un’educazione basata sulla centralità del dio-bambino, e la conseguente dipendenza dai like sui social che inizia nell’era di Netlog e Tumblr.
I like non sono il numerino che compare su Instagram, ormai quasi del tutto bandito, ma la validazione che avviene attraverso l’icona del pollice in su. Ed è la sua continua ricerca che muove i membri della Gen Y, bisognosi di essere visti, riconosciuti, accettati anche quando — ormai tutti con più di trent’anni — dovrebbero aver raggiunto l’età minima per soddisfare da sé il bisogno di approvazione che delegano invece a familiari ed estranei. Abituati all’invisibilità a cui sono stati relegati da un sistema che li penalizza in tutto e per tutto, hanno fatto proprio il mantra: “Se non mi vedi, non esisto”.
Su questo assunto si basa l’eccessivo interventismo sui social, quello che muoveva anche me quando mi ostinavo a voler far ragionare @fragolina77 — che, immagino, soffriva a sua volta del medesimo disturbo. Insieme all’esigenza di essere visti c’è la percezione di non avere potere sulla propria vita: se io cercavo di dominare la mia con la rabbia, i miei coetanei sviluppavano altri meccanismi difensivi. Di rado contemplano una presa di coscienza, preferendo a questa l’ironia: i millennial hanno assorbito così tanto il linguaggio di Internet che ormai esorcizzano la naturale spinta verso l’adultità e i suoi riti di passaggio con meme autoironici dove si pensano ancora degli adolescenti. Ma nel rifiuto della responsabilità verso se stessi c’è anche quello verso le generazioni successive, e la preoccupante assenza di autocritica non aiuterà a renderci adulti migliori dei nostri genitori.
Mentre la mia Gricia e la sua parmigiana condivano un pranzo al sapore di insofferenza internettiana, Eleonora C. Caruso mi ha fatto notare che una dei più grandi idoli millennial, Taylor Swift, ha costruito la carriera proprio sul vittimismo e sull’identificazione, da parte delle fan, con una narrazione dove il problema si trova più fuori che dentro di sé — a scanso di equivoci: sono una grande fan di Taylor e conosco le eccezioni che si applicano a questa regola, prima di tutte la pluripremiata ma anche più matura Anti-hero.
Eleonora, by the way, è una delle poche rappresentanti millennial che ha fatto un mea culpa collettivo scrivendo Doveva essere il nostro momento, un romanzo che cerca di capire cosa è andato storto per una generazione che sembrava avere in pugno lo strumento del terzo millennio, Internet, e che si è fatta derubare pure di quello.
D’altro canto, non odiava forse se stesso per non essere riuscito a sfruttare a suo vantaggio quel sistema, come la società gli ripeteva che avrebbe dovuto fare? Non odiava la sua schifo di generazione nata molle, arresa, illusa da far pena e ingenua da far ridere? Non odiava la generazione precedente per averli messi in quella situazione, averli cresciuti così, creando un mercato del lavoro così, riducendo il mondo così? […] Sarebbero dovuti essere speciali, l'anello di congiunzione tra il vecchio e il nuovo millennio, tra l'analogico e il digitale, e invece non erano niente. Non erano stati destinati a niente. Non avevano lasciato alcuna traccia, se non battute ironiche sotto infinite discussioni inutili.
Carolina Bandinelli, in La più brava, dice attraverso un personaggio del libro:
Il problema, conclude Ugo, pallido, scendendo dal bus, è che noi, la nostra generazione, non riusciamo a diventare adulti, non è che non vogliamo o non possiamo, è che proprio non siamo capaci.
Nell’incapacità di diventare adulti c’è il totale disconoscimento dal dato anagrafico: l’adultità è uno stato interiore ma anche esteriore. Mentre i millennial invecchiano e si preoccupano di sembrare ancora giovani — più della Gen Z, come spesso si vantano su TikTok — l’idea di compiutezza che dovrebbe appartenere a un individuo formato si allontana sempre di più. La volontà di non crescere nasconde il rifiuto della presa di responsabilità, che pensiamo riguardi il dubbio di avere figli o il desiderio di licenziarsi, e invece c’entra col prendere atto del fatto che il modo in cui ti senti — salvo condizioni particolari — è sotto il tuo controllo: scaricare le proprie emozioni sul resto del mondo anziché assumersene il peso lascerà una generazione chiusa nella propria stanzetta mentale. Alla fine, in sostanza, ci rimarranno solo i meme.
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Apprezzo sempre moltissimo le tue newsletter perché forniscono sempre grandi spunti di riflessione. Questa mi ha smosso più del solito . Sono d’accordo su molte cose che dici, sul fatto che seppur siamo stati una generazione molto penalizzata anche noi ci abbiamo messo del nostro e che dovremmo iniziare a riflettere ora su che adulti dovremmo/vorremmo essere invece che continuare a recriminare sul passato e su chi ci ha cresciuto, tuttavia mi sento un po’ più ottimista di te, perché già il fatto che ce lo stiamo chiedendo, questa newsletter ne è una dimostrazione, denota che abbiamo qualcosa di importante da dire e da fare e non siamo solo una generazione di passaggio caratterizzata da non essere né carne né pesce (troppo giovane per aver goduto dei privilegi di Baby Boomers e Gen X e troppo vecchi per saper sfruttare a pieno e in modo consapevole gli strumenti digitali come la Gen Z e forse la Gen alfa) come per lungo tempo abbiamo creduto di essere, ma davvero possiamo portare un nostro contributo senza continuare a sentirci vittime (anche se oggettivamente un po’ lo siamo…)