Nel 2015, ho scritto una tesi triennale che analizzava il passaggio, all’inizio degli anni Settanta, dal letterato-editore al dirigente-manager a capo delle case editrici, e la conseguente trasformazione del settore librario e del suo reparto marketing.
C’è un evento preciso: l’acquisizione da parte di Ifi-Fiat — e di altre realtà extraeditoriali — di alcuni marchi, episodio che sposta gli equilibri economici e industrializza un campo ancora abbastanza “artigianale”. Il passaggio è sancito inoltre dalla scomparsa dei più importanti editori che hanno segnato il Novecento: Angelo Rizzoli (1970), Arnoldo Mondadori (1971), Giangiacomo Feltrinelli (1972).
Giancarlo Ferretti parla di “apparato”, cioè quel sistema massicciamente orientato alle vendite che attiva un’“agguerrita macchina distributivo-promozionalmassemediale”. Ifi-Fiat, per esempio, inventa l’indicazione del “pubblico” e dei “motivi di vendita” inserita nelle schede destinate ai librai (i copertinari). È in questo momento che il tempo di vita del libro si accorcia, privilegiando la formula del romanzo di successo con vendite su tempi medio-lunghi a quello con vendite su tempi medio-brevi. Ed è in questo momento che l’editoria cambia.
Vi fornisco questa nota storica perché, ciclicamente, si torna a parlare della crisi dell’editoria — un problema su cui ci si arrovella da decenni — tra chi sembra conoscere il mercato ma non i suoi acquirenti. E inquadrare un periodo spartiacque — tra il 1969 e il 1971 ci sono, tra l’altro, due gravi crisi finanziarie — aiuta a comprendere che l’editoria si è messa nel sacco da sola, ma anche che i tempi sono ormai talmente diversi da rendere insensato il paragone con la bella editoria dei begli anni andati.
Iniziamo da un classico: in Italia si fanno i libri, ma non i lettori. Secondo i dati dell’AIE, che sembra voler includere a forza qualsiasi vaga forma di lettura sia pure quella dei post su Facebook, il 73% degli italiani legge, anche solo in parte, un libro di qualsiasi genere. Senza queste edulcorazioni, Istat rileva invece un 39%.
Tra gli addetti ai lavori, le cause — le colpe — vengono attribuite a diversi fattori: non c’è tempo, non c’è sufficiente concentrazione, non ci sono soldi — ah no, quello no: è sempre responsabilità del lettore, raramente della situazione socio-economica.
Nel numero di Tutto Libri uscito l’1 marzo, Mario Baudino riporta l’esempio della casa editrice Marcos y Marcos, che ha ridotto drasticamente il numero di novità per dedicarsi a una produzione e comunicazione più efficaci. Marco Zapparoli, l’editore, si fa latore del messaggio “Less is more”, perché l’aumento spropositato della pubblicazione di libri ha portato a una congestione. Per essere chiari: secondo l’Istat, nel 1973 si pubblicavano 16.124 libri. Oggi sono quasi novantamila, di cui una grossa parte pubblicati a pagamento.
Il timido tentativo di rivoluzione viene ovviamente stroncato da AIE: “L’editoria cresce perché crescono i titoli”, dice. Il numero di libri che si stampano in Italia è in linea con le medie europee, “anche se con indici di lettura più bassi”. Cosa intendiamo con “più bassi”? In Lussemburgo legge il 75,2% della popolazione, in Danimarca il 72,1%, in Estonia il 70,7% (dati Eurostat). I numeri italiani non sono semplicemente più bassi ma drammatici, se calcoliamo poi che negli anni non sono nemmeno aumentati troppo: secondo Adolfo Morrone e Miria Savioli, nel 1965 i lettori erano il 16,3%, nel 1973 il 24,4% e nel 1988 il 36,6%. Per percentuali di lettori quasi invariate rispetto a circa quarant’anni fa (se consideriamo il dato Istat e non l’ottimista dato AIE), in Italia pubblichiamo quindi sessantamila copie in più.
A ciò si aggiunge un dato completamente ignorato, cioè quello del Sud e delle Isole: qui le percentuali si abbassano in modo ancora più drastico. Ma a una editoria accentrata nei palazzi milanesi, l’idea che il paese sia composto in buona parte da realtà provinciali e sobborghi degradati con insufficienza di servizi basilari, dove leggere è l’ultimo dei problemi, non sfiora — o lo fa marginalmente.
Il rifiuto di ripensare il suicidario sistema editoriale strillato nel primo articolo si affianca alla colonnina del commento di Sandro Bonvissuto — che, menomale, dà una risposta definitiva all’annosa questione: “La nuova barbarie del politicamente corretto, impone cliché offensivi per l'intelligenza di un piccione, i book toker, sono ragazzini e ragazzine molto graziosi, ma ignoranti come i tombini in ferro, gli editor fanno libri inseguendo il discutibile gusto del pubblico, invece che educare la gente ad elevarsi al livello dei libri, […] i critici rischiano la lapidazione, in quanto fascio-conservatori agli occhi della comunità intrisa di valori nazi-woke” (la punteggiatura appartiene all’originale).
Era difficile concentrare tanti luoghi comuni e mezze verità in poche righe, ma eccoci qui. Il leit motiv è la convinzione che i gusti del pubblico siano discutibili e che l’editoria debba educare una massa evidentemente ignorante, come se dalla mentalità paternalista degli anni Sessanta non fossimo mai usciti: e in effetti è così. Lo si percepisce anche dal tentativo di una certa narrativa italiana di addentrarsi nel vissuto proletario senza conoscerlo, e abbinando uno stile troppo pulito e misurato per raccontare alcunché — un’operazione molto diversa da quella che fa, per esempio, Elena Ferrante, che adegua la scrittura alla materia del racconto. Allo stesso modo, l’editoria attuale si avvicina a gusti “popolari” (nell’accezione più bassa) a cui è per lo più estranea, ma solo a patto che portino vendite.
Lo stesso discorso vale per i vituperati booktoker: dopo aver snobbato almeno un decennio di book creator, sono diventati interessanti solo nel momento in cui hanno cambiato le sorti delle classifiche. Ma non basta, evidentemente, visto che da un lato vengono sfruttati e dall’altro disprezzati negli inserti culturali (era successo pure con un articolo di Natalia Aspesi su Robinson).
Infine, abbiamo lo spauracchio del politicamente corretto, che non sembra abbia impedito la pubblicazione del best-seller di Vannacci né di articoli contro l’onnipresenza delle autrici donne a viziare le sorti della letteratura — saranno forse le femministe le sentinelle del nazi-woke a cui fa riferimento Bonvissuto? Incredibile come le donne non stiano buone in un angolo a farsi insultare.
In un modo o nell’altro, le spiegazioni per cui in Italia non si legge non centrano mai il punto principale, e cioè che siamo un paese arretrato. E no, non parlo del presunto gusto esecrabile del pubblico: i consumi culturali sono limitati da stili di vita con ritmi insostenibili e da un bassissimo riscontro economico. La lettura non rientra nell’ordine delle priorità, e viene giustamente preferita — sia per questione di tempo che di soldi — a bisogni primari e più necessari, che vanno dalla spesa mensile alle vacanze estive allo Spritz a dieci euro vissuto come un momento di indispensabile socialità. D’altro canto, la preferenza di qualsiasi altra cosa a un libro viene trattata come un’onta: “I soldi per i libri no, ma per l’iPhone sì?” si sente dire spesso, come se i due beni fossero intercambiabili e non rispondessero invece a esigenze diverse. Questo atteggiamento snob e un po’ classista manca di contatto con la realtà ed esacerba un discorso che non empatizza mai con i non lettori.
È vero che per molti la lettura non ha attrattiva, a prescindere dai grandi capolavori o dagli instant book che si pubblicano. E questo perché non sono utili né gli uni né gli altri: prima di tutto servono storie appassionanti, e poi qualcuno che ne parli così bene da spingere anche il più scettico ad aprire un libro.
La lettura funziona quando crea comunità: ecco perché aumentano i silent reading party, i gruppi di lettura, le conversazioni online. In questi tempi di profonda solitudine, i libri devono raccogliere le persone, legarle con un filo sottile, farle sentire comprese nella consapevolezza che un altro essere umano sta provando le stesse cose — e lo sta dicendo, insieme a te, nello spazio intimo di una libreria, o tra i commenti di un video su YouTube. Quando smetteremo di intellettualizzare la domanda, avremo la risposta al perché si leggano pochi libri.
Il video della settimana
Sabato ho anticipato l’argomento con un video su YouTube che trovate QUI. Vi consiglio di dargli un’occhiata anche solo per le tantissime testimonianze arrivate tra i commenti.
Le ultime newsletter
Essere informati significava non perdere il controllo
Come lo Spritz del venerdì ha alterato la chimica del mio
Una newsletter divertente che non scriverò mai più
Il manuale di sopravvivenza diceva: scrivi
Il mondo non è finito quando ho quasi vomitato davanti a Zadie Smith
Le mie persone preferite sono quelle che mi fanno sentire stupida
Ciao Fede, innanzitutto complimenti per questo, ma in realtà per tutti, tuo contenuto.
Domandine sparse: ma quindi è la rivoluzione di modello degli anni '70 che ha portato all'attuale modello consumistico dove non siamo persone ma target di vendita? È un qualcosa che abbiamo importato dall'estero o è tutta farina del nostro sacco?
Seconda domandina: che tu sappia nel numero di libri pubblicati ogni anno (i 16mila degli anni '70 e gli attuali 90mila), includono anche libri di cucina, manualistica, scolastica e via discorrendo?
La terza è in realtà sul criterio Eurostat per definire lettore o meno una persona. Ma quello me lo cerco senza caricarti di altro.
Un abbraccio
Ciao, grazie per questo post molto interessante. Lascio un commento personale, perché non sono competente in date e numeri. Nel mio vissuto (sono nata nel 1969), i libri letti e acquistati sono stati tantissimi fino circa al 2015, diciamo in calo dal 2010… per me c’è stato un drammatico crollo con la diffusione del wifi e degli smartphone. Invece dal lockdown una risalita verso la fruizione di contenuti scritti ma in forma diversa, via YouTube o podcast. Le mie fonti di informazione e di intrattenimento sono, nella mia percezione, più vari e di qualità anche se talvolta più espliciti e disturbanti. Insomma io vedo il fenomeno dell’editoria incesellato in un movimento/cambiamento socioculturale molto più complesso e ampio.