In terza elementare ho partecipato a un corso pomeridiano su socialità e affettività. Ai tempi non sapevo di cosa si trattasse, ma mi ero iscritta su base volontaria. Di quelle poche ore ricordo solo due dettagli: la storia dei porcospini che devono stare abbastanza vicini da scaldarsi, ma non così tanto da pungersi — è un dilemma di Schopenhauer — e il fatto che, dopo qualche incontro, le maestre riferirono ai miei genitori che non ero una bambina a cui servisse quel tipo di lezioni.
È stata la prima e unica esperienza scolastica legata alla gestione delle emozioni e dei confini personali che ricordi: sono passati tanti anni e non mi sembra che le scuole oggi offrano molto più di allora in termini di educazione affettiva, né possiamo realisticamente sperare lo facciano in futuro, a dispetto degli appelli delle femministe. Nel frattempo, vediamo i maschi (più o meno giovani) arrancare nell’ambito delle relazioni e dell’espressione dell’emotività. Quando questa problematica si esacerba fino a sfociare in fatti di cronaca, quasi mai il dibattito pubblico centra il punto delle difficoltà maschili. Lo stesso copione si è riprodotto con un prodotto di fiction come Adolescence.
Ho visto la serie due volte, prima in lingua originale e poi doppiata, e ho letto e ascoltato qualsiasi tipo di commento. La mia giustificazione è che la trovo scritta così bene da costituire un caso di studio: chi la considera lenta probabilmente non è appassionato di scrittura, e forse nemmeno di cinema.
Adolescence — ormai lo sanno tutti — racconta l’omicidio di una ragazzina da parte di un coetaneo, esplora il punto di vista della famiglia dell’assassino e le motivazioni sistemiche che causano la tragedia. In Italia, la discussione si è spostata sull’uso dei social fatto e sull’incomunicabilità tra generazioni. O, per meglio dire, la maggior parte dei genitori si è immedesimata nel padre e nella madre di Jaime e, spaventata dall’idea di crescere criminali, ha cercato di farsi rassicurare dai propri figli: “Ho chiesto al mio tredicenne se sappia chi sono gli incel e mi ha detto di no!!”, ho letto più spesso di quanto avrei voluto.
A terrorizzare, evidentemente, è l’impossibilità di comprendere ciò che passa per la testa degli adolescenti così da prevenire eventuali pericoli. Mi disturba però che l’unico obiettivo sia arrivare illesi alla fine di questo complicato periodo della vita, anche perché cosa voglia dire “illesi” cambia in base alla sensibilità del genitore.
Mi dispiace, ma che il pargolo abbia raggiunto i venticinque anni senza trucidare nessuno non è sufficiente se comunque insulta qualche ragazza sui social o nel privato, scredita chi sceglie di mostrare liberamente il proprio corpo, si finge vittima di un sistema ingiusto tutto a vantaggio delle donne. Peggio ancora, se entra attivamente a far parte di quel sistema che poi le donne le discrimina davvero penalizzandole per esempio sul lavoro, o se parteggia per realtà politiche con il chiaro obiettivo di togliere diritti al genere femminile.
Cosa significhi “fallimento” quando si parla dell’educazione dei figli è quindi opinabile. Per una rappresentazione più ampia, si potrebbe partire proprio da Adolescence che tratta, prima ancora che di incomunicabilità e dei pericoli dei web, di fragilità maschile. Non solo quella del protagonista, ma anche quella del padre: incapace di entrare in contatto emotivo con il figlio, Eddie Miller incarna un modello di mascolinità con cui Jaime non riesce a confrontarsi. Il rapporto padre-figlio è incrinato dalla vergogna e dalla delusione per aspettative di virilità non soddisfatte. La serie ruota intorno a quello che gli uomini dovrebbero fare o dovrebbero essere: la rabbia è l’unica manifestazione socialmente accettata, e nasconde una vulnerabilità che si palesa nell’incapacità di controllarla.
Quando ho chiesto al mio compagno se secondo lui Eddie Miller è un uomo violento, ha risposto di sì, con mio sollievo: per quanto si sforzi di essere un bravo genitore — nel modo più tradizionale possibile: lavora duramente per mantenere il figlio, ma non ne conosce nemmeno le allergie —, il padre di Jaime ha infatti ereditato grossi problemi di controllo della rabbia. La sua disregolazione tiene in ostaggio la moglie, la quale si comporta come un contenitore emotivo che mitiga il clima familiare.
Non vuol dire che Miller sia una cattiva persona — la forza della serie sta nell’abilità di tenere insieme le contraddizioni — ma che non è stato un riferimento adeguato per il figlio. Tra i due non c’è, per esempio, contatto fisico: all’unico approccio da parte di Jaime, alla fine del primo episodio, Miller risponde sottraendo lo sguardo e il corpo, e rinnovando così il senso di vergogna.
Prima di interrogarsi sull’utilizzo degli smartphone — importante, certo, ma solo in una fase successiva — bisognerebbe indagare se gli adolescenti stanno bene, come vivono i rapporti con gli amici e con l’altro sesso, qual è il livello della loro autostima e, soprattutto, che basi ha: i voti? La popolarità a scuola? L’approvazione dei genitori o della società? E ancora: cosa provano i ragazzi davanti a un rifiuto? Come gestiscono la frustrazione? Quanto sono aperti al futuro, alla socialità, al fallimento?
Sono domande valide sia per i maschi che per le femmine, ma le risposte dei due sessi possono essere opposte e coinvolgere diversi gradi di remissività o violenza, assorbiti in primo luogo in famiglia. Ecco perché non si dovrebbe partire dai più giovani: è superfluo tentare di controllare il mondo degli adolescenti nel momento in cui non si è adulti sani, a contatto con la propria sfera emotiva, comunicativi, profondi, autentici, sinceramente interessati. È perfettamente inutile stimolare il dialogo se ad esempio ci si pone con la convinzione di avere tutte le risposte o se, alla prima confidenza, si derubrica il disagio a sciocchezza — quale millennial non si è mai sentito dire dal genitore boomer che “i problemi veri sono altri”?
A supporto di una mascolinità vulnerabile, soprattutto, servono modelli e riferimenti affidabili che amplino le possibilità dell’essere: il ventaglio di emozioni e sentimenti da provare, la quantità e qualità di parole che scegli di pronunciare, le declinazioni dei ruoli di padre, compagno, amico che puoi esplorare. L’educazione maschile, ovviamente, deve essere prima di tutto a carico degli uomini: se e quando questi se ne prenderanno la responsabilità, cresceremo una generazione emancipata dal terrore di non essere abbastanza virile.
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Bellissime riflessioni, attendo con piacere ogni tua newsletter! Ho visto la serie anche io, l'ho consigliata soprattutto agli uomini, persino a mio padre, perché purtroppo le dinamiche che hai citato del "i veri problemi sono altri" sono presenti in quasi ogni famiglia di millennial per lo meno.
Ciao! Ti ho conosciuta grazie alla Milan Loves Seoul e i tuoi contenuti mi hanno incuriosita. Spesso mi trovo d'accorto con te su molte delle questioni di cui parli.
Anche a me piace scrivere, ma nella vita di tutti i giorni lavoro nella scuola e mi capita spesso di riscontrare che ai giovani (soprattutto ai ragazzi) non viene più insegnato come gestire la frustrazione. Basta un "no" detto per qualcosa di banale, o un piccolo insuccesso che subito perdono la pazienza. Il più delle volte, poi, la colpa la attribuiscono all'esterno, non soffermandosi mai in un attimo di riflessione su se stessi. Quel che è peggio è che molte volte i genitori li incoraggiano a farsi valere a prescindere.
E nulla, mi sono iscritta alla newsletter oggi ma l'argomento è particolarmente sentito, perciòci tenervo a lasciare un feedback. Alla prossima riflessione!