"Io che non ho conosciuto gli uomini" non vende sogni ma nemmeno solide realtà
Perché il romanzo di Jacqueline Harpman parla di cyborg e post umano
Da ragazzina pensavo che avere uno scopo nella vita fosse fondamentale, e io lo avevo trovato nella scrittura. Mio padre, come avrebbe fatto ogni adulto dotato di buon senso, mi aveva detto che a quattordici anni il mio unico obiettivo fosse studiare. Non mi era sembrata granché come idea, quindi avevo continuato a postare le mie fanfiction sui forum online. Ve l’ho raccontato in una recente newsletter: oggi cerco di essere più clemente con quello che è sempre stato una specie di tarlo, ma la lettura di Io che non ho conosciuto gli uomini di Jacqueline Harpman (#giftedby Blackie Edizioni) ha riportato a galla una serie di interrogativi.
Paragonato spesso al Racconto dell’ancella, ero convinta che Io che non ho conosciuto gli uomini parlasse di oppressione femminile, ed è invece una storia su cosa rimane dell’umanità quando viene privata delle sovrastrutture sociali. Ma se questo tipo di narrazione, di certo non nuova in letteratura, è sempre stata incentrata sugli uomini — penso a Il signore delle mosche di William Golding o a Cecità di Saramago, ma anche a un esempio meno scontato come Vergogna di Coetzee —, il romanzo di Jacqueline Harpman elabora il tema dal punto di vista delle donne. Nessuna di queste, incredibile a dirsi, finisce per ammazzarsi l’una con l’altra.
La trama è molto scarna: in uno scenario distopico, un gruppo di donne — eccetto la voce narrante, che è un’adolescente — rinchiuso per anni dentro a un bunker viene fortuitamente liberato e, una volta uscito, si trova davanti un spazio vasto e desertico. Le fuggitive danno così vita a una comunità: costruiscono case, si assegnano dei compiti, si raccontano storie intorno al fuoco. Tutte covano la speranza che ci sia un centro urbano abitato da qualche parte, ma i sopralluoghi non portano a nulla e quell’illusione di benessere è sufficiente a trattenerle nel posto dove si sono stanziate. Soltanto la protagonista, ritrovatasi ormai da sola dopo molti anni, deciderà di esplorare fino in fondo l’ambiente misterioso in cui si trova.
Il romanzo segue la crescita della protagonista e assume un valore documentaristico: di lei sappiamo che è stata portata nel bunker da piccolissima, che odia il contatto umano, che non ha le mestruazioni. Immaturità fisica ed emotiva si sovrappongono: la voce narrante è fredda e distaccata e non prova affetto per le persone con cui è cresciuta, a stento le comprende. Non ha mai conosciuto gli uomini, come recita il titolo: non sa quindi cosa siano l’amore o la passione. Ha però spiccata inventiva e forte curiosità, propensione per i lavori manuali, mente analitica.
Il libro restituisce il ritratto di un essere umano con scarsa empatia — a dispetto del famigerato istinto materno — ma portato alla scoperta e all’esplorazione, in un modo che, all’interno del contesto del libro, ricorda l’Odisseo omerico: la protagonista è una polytropa che vuole oltrepassare le colonne d’Ercole, intese sia come confine geografico che come rappresentazione dei limiti umani.
Harpman vuole indagare cosa sia una donna fuori dai costrutti sociali che la rendono tale, e infatti, venuto meno nel romanzo il capitalismo — e avendo un corpo improduttivo da questo punto di vista — la protagonista è libera dalla performatività funzionale: ecco che, pur possedendo le costituenti essenziali degli esseri umani — l’ingegno, la curiosità —, le emozioni atrofizzate e la difficoltà a capire le proprie compagne la rendono a tratti simile a un cyborg.
Per Donna Haraway, il cyborg è la metafora del superamento del dualismo uomo/donna e l’occasione di liberarsi dalle strutture biologiche e sociali tradizionali. Allo stesso modo, la narratrice di Io che non ho mai conosciuto gli uomini è una creatura ibrida che travalica la concezione biologica di donna e che, abitando un mondo che possiamo definire “post umano” perché sprovvisto di una società organizzata, reinventa il concetto di umanità a partire dalla solitudine in cui, ultima sulla terra, la protagonista è immersa.
Ciò porta a una serie di domande esistenziali, tra cui lo scopo della vita laddove non paiono esserci motivi per proseguirla: cosa serve perché una vita sia definita “buona”? Cosa rimane di un’umanità senza desiderio? Può un individuo bastare a se stesso?
Non ho potuto fare a meno di calare queste domande nel contesto moderno, dove ci aggiriamo come zombie schiavi della cultura del lavoro, all’affannata ricerca di un significato che non troviamo nel mero consumismo o in relazioni usa e getta. Spesso dobbiamo arrenderci al fatto che non c’è. E così, anche Io che non ho conosciuto gli uomini inizia senza speranza e finisce più o meno nello stesso modo, dipanando nel mezzo un’intera esistenza che assume valore solo perché c’è stata. La risposta, quindi, sta forse nella constatazione che la presenza è sempre preferibile all’assenza, per quanto svuotata di riferimenti, e a condizione di trovare un equilibrio interno, come fa la protagonista di questo romanzo. Ma lei, lo abbiamo detto, è un cyborg.
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